autore: Piero Ceccatelli
Giornalista La Nazione
QUAL E’ LA FOTOGRAFIA PIU’ FEDELE DELL’ECONOMIA DI PRATO? L’istantanea del Macrolotto 1 dove il 90% dei 250 lotti esibiscono insegne bilingul, con ideogrammi cinesi affiancati all’italiano e dove ha sede il distretto del pronto moda più grande d’Europa? O la strada di Montemurlo e relative diramazioni dove negli ultimi anni si è trasferito il tessile tradizionale pratese? Scegliere non è possibile. Le foto vanno affiancate, accostate perché all’alba del terzo decennio del Duemila l’economia di Prato ha due protagonisti. Gli impetuosi orientali che hanno trasformato i laboratori protoindustriali della prima ora della loro migrazione in capannoni moderni, razionali e sempre poi sicuri. E che confezionano a getto continuo abiti pret à porter per i mercati low cost di tutta Europa: dall’Est emergente alle griffe della moda usa e getta, tutti si riforniscono qui, ma non sempre amano ammetterlo. Al Macrolotto 1 si uniscono due forze: la prima è una capacità produttiva con performances inimmaginabili per qualità, costi e tempi di consegna, anche grazie a un rispetto della legalità in avviata crescita, ma ancora lontano dagli standard occidentali.
La seconda forza è il Made in Italy sulle etichette dei capi. Verità, non contraffazione. Sono abiti confezionati in Italia, anche se con procedure cinesi. E vuoi mettere l’appeal di un pantalone da dieci dollari, che esibisce orgoglioso di arrivare dalla patria di Armani e Valentino, anziché nascondere nella tasca più recondita il marchietto Made in Vietnam o in Bulgaria?
L’altra fotografia è a Montemurlo. Ma è anche a Prato, al Macrolotto 2, in Valbisenzio. Dove sono rimaste le aziende tessili dei pratesi, sopravvissute alla crisi che ha costretto – o più spesso semplicemente convinto – i produttori tradizionali a chiudere. O, quelli sopravvissuti, a lasciare il Macrolotto 1 all’avanzata cinese, reinvestendo la lauta buonuscita ricevuta dagli orientali in sedi meno onerose (soprattutto a Montemurlo) e in nuove tecnologie.
Le fabbriche pratesi rimaste lavorano e fanno profitti, perché il tessile qui è di casa da oltre settecento anni e qualcosa vorrà pur dire, anche di fronte ai paesi emergenti dove la stoffa basic la producono operai pagati pochi dollari al giorno. Prato ha migliorato la qualità e ridotto i metri – anzi: i chilometri – di produzione quotidiana, per decenni simbolo e indice di prosperità. Più che alla quantità si punta ora alla qualità del prodotto. E della produzione, il più possibile green, sostenibile sul piano lavoristico (mai messo in dubbio) e ambientale. Con rifiuto di componenti tossiche, dannose per il consumatore e minori emissioni in aria e nelle acque. E c’è orgoglio finalmente verso quel rigenerato che creò fortune economiche e zavorre reputazionali per Prato, all’epoca degli stracci riconvertiti in stoffe. Prato era green quando nessun altro lo era ma non seppe imporsi nell’immagine come antesignana del futuro. Lo fa oggi ed è ancora in tempo, vista la maturata sensibilità generale.
Tessuti sostenibili e con sempre maggior valore aggiunto, insomma, frutto di ricerca, sperimentazione e più stretta collaborazione con gli stilisti. La figura storica dell’artigiano, ovvero dell’operaio che lavorava in proprio per un unico datore, è soppiantata da tecnici progettisti con diploma e laurea.
Il dato curioso e dolente è che fra chi produce tessuti e chi li confeziona non esiste, almeno strutturalmente, continuità. Le stoffe dei pratesi fin dagli anni ’90, quando qui si produceva anche il basic, sono risultate troppo care per il low cost cinese. Gli orientali importano tessuti dai paesi – madrepatria compresa – dove costano meno e i pratesi vendono le loro stoffe magari a migliaia di chilometri di distanza, ma non a chi le confeziona vicino a casa. Dunque, tornando alla domanda iniziale, per mostrare il panorama di Prato occorrono – ancora e chissà per quanto – due fotografie.
Alle quali per completezza d’affresco vanno aggiunti imprescindibili zoom. Sull’informatica di una Tt Tecnosistemi, sulla logistica di Albini e Pitigliani, rimasta nel cuore del Macrolotto 1 da dove, fra molto altro, cura parte delle spedizioni della moda prodotta dai cinesi. Sul meccanotessile, reduce da un 2018 florido a fianco del rinnovamento tecnologico del tessile locale e di nuovi impianti nei paesi emergenti. In difficoltà, il commercio al dettaglio con un centro storico spolpato di funzioni col trasferimento delle banche e del tribunale datato anni Ottanta e del recente spostamento dell’ospedale e la nascita a distanza di cinque chilometri, sullo stesso asse viario, di due grandi centri commerciali.
Sul fronte economico, Prato rappresenta una grande incompiuta: mai decollata la diversificazione. Chi ha chiuso col tessile non ha riaperto in altri settori, dedicandosi (timidamente) all’immobiliare o conservando liquidità per tempi migliori che al momento non si sono manifestati.
Nell’attesa, il distretto valorizza un’antica e a lungo trascurata vocazione agricola. Piccolo territorio, con la sorpresa di due vini docg. Il pinot nero prodotto quasi per miracolo in piccole e preziose quantità a Montemurlo da Pancrazi e il Carmignano, cantato nel Rinascimento dal Redi, di cui sapienti mani hanno governato l’innata e in po’ irruente spigliatezza per ricavarne un vino di dignità internazionale. Il Piaggia riserva 2016, della fattoria che vede al timone Mauro Vannucci e la figlia Silvia, è stato giudicato miglior rosso italiano e il “Terre a mano” della fattoria di Bacchereto è fra i primi 100 rossi del paese, secondo la guida del Gambero Rosso.
Da un lato l’industria che marcia sul green, dall’altro vini di alta qualità. Tornare alla natura, in fondo, è il destino scritto nel nome di Prato.
Piero Ceccatelli è giornalista de La Nazione. E’ stato responsabile della redazione centrale e di quelle di Prato, Pistoia e Lucca. Attualmente si occupa di web. Ha lavorato per Ansa, Il Tirreno e La Gazzetta dello Sport.